mercoledì 31 luglio 2013

77, le gambe delle donne - Ovvero: donne in gamba!





Antologia di 77 opere e 10 illustrazioni per esplorare, conoscere e rappresentare
la complessità e la varietà dell'universo femminile, a cura del sito BraviAutori.it


Nel libro sono presenti, tra gli altri, i racconti di Stella Demaris,
Anna Rita Foschini, Diego Luci e di altri membri del gruppo "Libri Stellari".

martedì 30 luglio 2013

Anteprima epub di "Strane Figure di Donne"



Scaricate l'anteprima gratuita, in formato epub,
dal mio gruppo Facebook "Libri Stellari":



Una raccolta di 8 racconti eterogenei, incentrati su stravaganti personaggi femminili, che abbraccia generi narrativi diversi: si va dalla storia fantastica esposta ne "La maga del caffè", dove una semplice impiegata diventa un'abile sensitiva, alle descrizioni erotiche di "Amplessi in una camera d'albergo (V.M. 18)"; dall'ironia de "Il segreto della maggiordoma" alle vicende fantasy che prendono corpo nell'antico Egitto grazie ai poteri magici di un animale consacrato a una divinità, cioè "La gatta della dea Bastet".

La passione per le invenzioni surreali si ripresenta ne "La Terza Isola", in cui un misterioso affioramento di terra appare dalle acque della Senna, nel centro di Parigi, aggiungendosi alle due isole già esistenti; una sottile vena di umorismo accompagna le confessioni dell'indossatrice protagonista di "Solo dalla vita in giù", mentre in "Un salvataggio inaspettato" entrano in scena nientemeno che i pirati.

A conclusione dell'opera un racconto da non perdere: "Regina di Pesci", nel quale l'autrice presenta la propria biografia vuotando il sacco su alcune situazioni particolari che hanno caratterizzato la sua famiglia, gli anni dell'infanzia e della giovinezza, la vita in un faro, la professione di pescivendola, gli amori clandestini e altri aneddoti finora mantenuti riservati...

Il libro contiene varie  illustrazioni a colori.


venerdì 26 luglio 2013

Il Coniglio Grosso!



Dopo il Gatto Grosso, ecco il Coniglio Grosso: un toro bumbolissimo
appartenente a Lino Milita :-)

Le Gros Lapin!

Lapin, dal latino "leporellus", cioè piccola lepre :-)


martedì 23 luglio 2013

"Pollicino" di Charles Perrault



Charles Perrault

Pollicino

dedicata a Puccio, figlio di Alex :-)

Pollicino (Le Petit Poucet) è una celebre fiaba di Charles Perrault, originariamente pubblicata nei Racconti di Mamma Oca nel 1697.


C’era una volta un taglialegna e sua moglie, i quali avevano sette figli, tutti maschi: il maggiore aveva dieci anni, il minore sette. Siccome erano molto poveri, i sette ragazzi davano loro un gran pensiero, per la ragione che nessuno di essi era in grado di guadagnarsi il pane.
La cosa che maggiormente li tormentava, era che il minore veniva su delicato e non parlava mai: e questo che era un segno manifesto di bontà del suo carattere, lo scambiavano per un segno di stupidaggine.
Il ragazzo era minuto di persona; e quando venne al mondo, non era più grande di un dito pollice; per cui lo chiamarono Pollicino.
Capitò un’annata molto triste, nella quale la carestia fu così grande, che quella povera gente decise di disfarsi dei loro figliuoli.
Una sera che i bambini erano a letto, e che il taglialegna stava nel canto del fuoco, disse, col cuore che gli si spezzava, a sua moglie:
“Come tu vedi, non abbiamo più da dar da mangiare ai nostri figli: e non mi regge l’animo di vedermeli morir di fame innanzi agli occhi: oramai io sono risoluto a portarli nel bosco e farveli sperdere; né ci vorrà gran fatica, perché, mentre essi si baloccheranno a far dei fastelli, noi ce la daremo a gambe, senza che abbiano tempo di accorgersene”.
“Ah!”, gridò la moglie, “e puoi tu aver tanto cuore da abbandonare le tue creature?”
Il marito ebbe un bel tornare a battere sulla miseria, in cui si trovavano; ma la moglie non voleva acconsentire a nessun patto. Era povera, ma era madre: peraltro, ripensando anch’essa al dolore che avrebbe provato se li avesse veduti morire di fame, finì col rassegnarsi, e andò a letto piangendo.
Pollicino aveva sentito tutti i loro discorsi: e avendo capito, dal letto, che ragionavano di affari, si levò in punta di piedi, sgattaiolando sotto lo sgabello di suo padre, per potere ascoltare ogni cosa senz’esser visto.
Quindi ritornò a letto, e non chiuse un occhio nel resto della nottata, rimuginando quello che doveva fare. Si levò a giorno, e andò sul margine di un ruscello, dove si riempì la tasca di sassolini bianchi: poi quatto quatto se ne tornò a casa.
Partirono, ma Pollicino non disse nulla ai suoi fratelli di quello che sapeva.
Entrarono dentro una foresta foltissima, dove alla distanza di due passi non c’era modo di vedersi l’uno con l’altro. Il taglialegna si messe a tagliar legne, e i ragazzi a raccogliere delle frasche per far dei fastelli.
Il padre e la madre, vedendoli intenti al lavoro, si allontanarono pian piano, finché se la svignarono per un viottolo fuori di mano.
Quando i ragazzi si videro soli, si misero a strillare e a piangere forte.
Pollicino li lasciò strillare, essendo sicuro che a ogni modo sarebbero tornati a casa; perché egli, strada facendo, aveva lasciato cadere lungo la via i sassolini bianchi che s’era messi nella tasca.
“Non abbiate paura di nulla, fratelli miei”, disse loro, “il babbo e la mamma ci hanno lasciati qui soli; ma io vi riporterò a casa: seguitemi.”
Essi infatti lo seguirono, ed egli li guidò per la stessa strada che avevano fatto, andando al bosco. Da principio non ebbero coraggi d’entrarvi: e si misero in ascolto alla porta di casa per sentire quello che dicevano fra loro, il padre e la madre.
Ora bisogna sapere che quando il taglialegna e sua moglie rientrarono in casa, trovarono che il signore del villaggio aveva mandato loro dieci scudi, di cui era debitore da molto tempo, e sui quali non ci contavano più. Questo bastò per rimettere un po’ di fiato in corpo a quella povera gente, che era proprio a tocco e non tocco per morir di fame.
Il taglialegna mandò subito la moglie dal macellaro. E siccome era molto tempo che non s’erano sfamati, essa comprò tre volte più di carne di quella che ne sarebbe abbisognata per la cena di due persone.
Quando furono pieni, la moglie disse:
“Ohimè! dove saranno ora i nostri figliuoli? se fossero qui potrebbero farsi tondi coi nostri avanzi! Ma tant’è, Guglielmo, sei stato tu che hai voluto smarrirli: ma io l’ho detto sempre che ce ne saremmo pentiti. Che faranno ora nella foresta? Ohimè! Dio mio! i lupi forse a quest’ora li hanno già divorati. Proprio non bisogna aver cuore, come te, per abbandonare i figliuoli a questo modo!...”.
Il taglialegna perse la pazienza, perché la moglie tornò a ripetere più di venti volte che egli se ne sarebbe pentito, e che essa l’aveva di già detto e ridetto: e minacciò di picchiarla se non si fosse chetata.
Questo non voleva dire che il taglialegna non potesse essere anche più addolorato della moglie; ma essa lo tormentava troppo: ed egli somigliava a tanti altri, che se la dicono molto colle donne che parlano con giudizio, ma non possono soffrire quelle che hanno sempre ragione.
La taglialegna si struggeva in pianti, e seguitava sempre a dire:
“Ohimè! dove saranno ora i miei bambini? i miei poveri bambini?”.
Una volta, fra le altre, lo disse così forte, che i ragazzi, che erano dietro l’uscio, la sentirono e gridarono tutti insieme: “Siamo qui! siamo qui!”.
Essa corse subito ad aprir l’uscio e, abbracciandoli, disse:
“Che contentezza a rivedervi, miei cari figliuoli! Chi lo sa come siete stanchi, e che fame avete! e tu, Pieruccio, guarda un po’ come ti sei sporcato! vieni qui, che ti pulisco”.
Pieruccio era il maggiore dei figliuoli e la madre gli voleva più bene che agli altri, perché era rosso di capelli come lei.
Si misero a tavola e mangiarono con un appetito, che fecero proprio consolazione al babbo e alla mamma, ai quali raccontarono, parlando quasi tutti nello stesso tempo, la gran paura che avevano avuta nella foresta.
Quella buona gente era tutta contenta di rivedere i figliuoli in casa; ma la contentezza durò finché durarono i dieci scudi. Quando questi finirono, tornarono alla solita miseria, e allora decisero di smarrirli nuovamente; e per andare sul sicuro, pensarono di condurli molto più lontani della prima volta. Peraltro di questa cosa non poterono parlarne con tanta segretezza, che Pollicino non sentisse tutto; il quale pensò di cavarsene fuori col solito ripiego: se non che, quantunque si alzasse sul far del giorno per andare in cerca di sassolini bianchi, rimase proprio come quello, e non poté far nulla, perché trovò l’uscio di casa serrato a doppia mandata.
Egli non sapeva davvero che cosa inventarsi, quando ecco che la madre dette a ciascuno di loro un pezzo di pane per colazione. Allora gli venne in capo che di quel pane avrebbe potuto servirsene, invece dei sassolini, seminando le briciole lungo la strada per dove sarebbero passati. E si mise il pane in tasca.
Il padre e la madre li condussero nel punto più folto e più oscuro della foresta: e quando ci furono arrivati, essi presero una scappatoia e via.
Pollicino non si preoccupò, perché sapeva di poter ritrovare facilmente la strada con l’aiuto delle briciole sparse; ma figuratevi come rimase, quando si accorse che le briciole gliele avevano beccate gli uccelli.
Eccoli dunque tutti afflitti, perché più camminavano e più si perdevano nella foresta. Intanto si fece notte e si alzò un vento da far paura. Pareva ad essi di sentire da tutte le parti urli di lupi, che si avvicinavano per mangiarli. Non avevano fiato né per discorrere, né per voltarsi indietro.
Venne poi un acquazzone che li bagnò fin sotto la pelle: a ogni passo sdrucciolavano e cascavano nella terra e quando si alzavano tutti infangati, non sapevano dove mettersi le mani.
Pollicino salì in cima a un albero per vedere se scorgeva il paese; e guardando da ogni parte, vide un lumicino piccino, come quello di una candela, il quale era lontano lontano, molto al di là della foresta.
Scese dall’albero e camminò davanti ai suoi fratelli, verso quella parte dove aveva veduto il lumicino, finì col rivederlo da capo mentre usciva fuori del bosco.
Arrivarono finalmente alla casa dove si vedeva questo lume: non senza provare delle grandi strette al cuore, perché di tanto in tanto lo perdevano di vista, segnatamente quando camminavano in qualche pianura molto bassa.
Picchiarono a una porta: una buona donna venne loro ad aprire, e domandò loro che cosa volevano.
Pollicino disse che erano poveri ragazzi che s’erano persi nella foresta, e che chiedevano un posto per dormire.
La donna, vedendoli tutti così carini, si messe a piangere, e disse:
“Ohimè! poveri miei figliuoli, dove siete mai capitati? Ma non sapete che questa è la casa dell’Orco che mangia tutti i bambini?”.
“Ah, signora”, rispose Pollicino, il quale tremava come una foglia, e così i suoi fratelli. “Che cosa volete che facciamo? Se non ci prendete in casa, è sicuro che i lupi stanotte ci mangeranno. E in tal caso, è meglio che ci mangi questo signore. Forse se voi lo pregate, potrebbe darsi che avesse compassione di noi.”
La moglie dell’Orco, sperando di poterli nascondere a suo marito fino alla mattina dopo, li lasciò entrare e li invitò a riscaldarsi intorno a un buon fuoco, dove girava sullo spiedo un montone tutto intero, che doveva servire per la cena dell’Orco.
Mentre cominciavano a riscaldarsi, sentirono battere tre o quattro colpi screanzati alla porta. Era l’Orco che tornava.
In meno d’un baleno, la moglie li nascose tutti sotto il letto ed andò ad aprire.
L’Orco domandò subito se la cena era lesta e il vino levato di cantina: e senza perder tempo si mise a tavola. Il montone non era ancora cotto e faceva sempre sangue, e per questo gli parve anche più buono. Poi, fiutando di qua e di là, cominciò a dire che sentiva odore di carne viva.
“Sarà forse”, disse la moglie, “quel vitello che ho spellato or ora, che vi mette per il naso quest’odore.”
“E io dico che sento l’odore di carne viva”, riprese l’Orco guardando la moglie di traverso, “e qui ci deve essere qualche sotterfugio!...”
Nel dir così si alzò da tavola e andò difilato verso il letto.
“Ah!”, egli gridò, “tu volevi dunque ingannarmi, brutta strega? Non so chi mi tenga dal fare un boccone anche di te. Buon per te, che sei vecchia e stopposa! Ecco qui della selvaggina, che mi capita in buon punto per far trattamento a tre Orchi miei amici, che verranno da me in questi giorni.”
E li tirò fuori di sotto il letto, uno dietro l’altro.
Quei poveri bambini si buttarono in ginocchio, chiedendogli perdono, ma avevano da fare col più crudele di tutti gli Orchi, il quale, facendo finta di sentirne compassione, li mangiava di già cogli occhi prima del tempo, dicendo alla moglie che sarebbero stati una pietanza delicata, in specie se gli avesse accomodati con una buona salsa.
Andò a prendere un coltellaccio, e avvicinandosi a quei poveri figliuoli, lo affilava sopra una lunga pietra che egli teneva nella mano sinistra.
E ne aveva già agguantato uno, quando la moglie gli disse:
“Che ne volete voi fare a quest’ora? non sarebbe meglio aspettare a domani?”.
“Chetati, te!”, riprese l’Orco. “Così saranno più frolli.”
“Ma ve ne avanza ancora tanta della carne! C’è qui un vitello, un montone e un mezzo maiale...”
“Hai ragione”, disse l’Orco, “rimpinzali dunque per bene, perché non abbiano a smagrire, e portali a letto.”
Quella buona donna, fuor di sé dalla contentezza, dette loro la cena: ma essi non poterono mangiare a cagione della gran paura che avevano addosso.
In quanto all’Orco, ricominciò a bere, soddisfatto di aver trovato di che regalare ai suoi amici. Vuotò una dozzina di bicchieri di più del solito, finché il vino gli diede alla testa e fu obbligato ad andare a letto.
L’Orco aveva sette figliuole, che erano sempre bambine, le quali erano tutte di un bel colorito, perché, come il padre, si cibavano di carne cruda; ma avevano degli occhiettini grigi e tondi, e il naso a punta e una bocca larghissima, con una rastrelliera di denti lunghi, affilati e staccati l’uno dall’altro.
Non erano ancora diventate cattive: ma promettevano bene, perché di già mordevano i fanciulli per succhiare il sangue.
Le avevano mandate a dormire di buon’ora, ed erano tutte e sette in un gran letto, ciascuna con una corona d’oro sulla testa.
Nella stessa camera c’era un altro letto della medesima grandezza. Fu appunto in questo letto che la moglie dell’Orco messe a dormire i sette ragazzi; e dopo andò a coricarsi accanto a suo marito.
Pollicino, che s’era avviso che le figlie dell’Orco portavano una corona d’oro in capo, e che aveva sempre paura che l’Orco non si pentisse di averli sgozzati subito, si alzò verso mezzanotte, e prendendo i berretti dei fratelli ed il suo, andò pian pianino a metterli sul capo delle sette figlie dell’Orco, dopo aver loro levata la corona d’oro, che pose sul capo suo e dei suoi fratelli, perché l’Orco li scambiasse per le proprie figlie, e pigliasse le sue figlie per i fanciulli che voleva sgozzare.
E la cosa andò proprio com’egli se l’era immaginata; perché l’Orco, svegliatosi sulla mezzanotte, si pentì di aver rimandato al giorno dopo quello che poteva aver fatto la sera stessa.
Saltò dunque il letto bruscamente, e prendendo il coltellaccio:
“Andiamo un po’ a vedere”, disse, “come stanno queste birbe; e facciamola finita una volta per tutte”.
Quindi salì a tastoni nella camera delle sue figlie, e si avvicinò al letto dove erano i ragazzi, i quali dormivano tutti, meno Pollicino, che ebbe una gran paura quando sentì l’Orco che gli tastava la testa, come l’aveva già tastata ai suoi fratelli.
L’Orco sentendo la corona d’oro, disse:
“Ora la facevo bella davvero! Si vede proprio che ieri sera ne ho bevuto mezzo dito di più”.
Allora andò all’altro letto, e avendo sentito i berretti dei ragazzi:
“Eccoli”, disse, “questi monellacci! Lavoriamo di fine”.
E nel dir così, senza esitare, tagliò la gola alle sue sette figliuole.
Contentissimo del fatto suo, andò di nuovo a coricarsi accanto alla moglie.
Appena che Pollicino sentì l’Orco che russava, svegliò i suoi fratelli e disse loro di vestirsi subito e di seguirlo. Scesero in punta di piedi nel giardino e scavalcarono il muro. Corsero a gambe quasi tutta la notte, tremando come foglie, e senza sapere dove andavano.
Quando l’Orco si svegliò, disse alla moglie:
“Va’ un po’ a vestire quei monelli di ieri sera”.
L’Orchessa restò molto meravigliata della bontà insolita di suo marito, e non le passò neanche dalla mente che per vestirli egli volesse intendere un’altra cosa, credendo in buona fede di doverli andare a vestire. Salì dunque di sopra, e svenne, vedendo le sue sette figliuole scannate e immerse nel proprio sangue. L’Orco, temendo che la moglie non mettesse troppo tempo a far quello che le aveva ordinato, salì di sopra anche lui per darle una mano; e non rimase meno sconcertato alla vista di quello spettacolo orrendo.
“Ah! che ho mai fatto?”, gridò. “Ma quei disgraziati me la pagheranno, e subito!”
E senza mettere tempo in mezzo, gettò una brocca d’acqua sul naso della moglie, e così avendola fatta tornare in sé:
“Dammi subito”, disse, “i miei stivali di sette chilometri, perché io li voglio raggiungere”.
E uscì fuori all’aperta campagna, e dopo aver corso di qua e di là, finalmente infilò la strada che battevano per l’appunto quei poveri ragazzi, che erano forse distanti non più di cento passi dalla casa paterna.
Essi videro l’Orco che passava di montagna in montagna, traversando i fiumi colla stessa facilità come se fossero stati rigagnoli.
Pollicino avendo occhiata una roccia incavata, lì vicino al luogo dove si trovavano, vi fece nascondere i sei fratelli, e vi si nascose anch’esso, senza perdere peraltro di vista tutte le mosse dell’Orco.
L’Orco che cominciava a sentirsi rifinito dalla strada fatta (perché gli stivali di sette chilometri sono molto faticosi per chi li porta), pensò di riprendere fiato, e il cielo volle che andasse per l’appunto a sedersi sopra la roccia, dove quei ragazzi si erano nascosti.
E siccome era stanco morto, dopo essersi sdraiato si addormentò, e si messe a russare con tanto fracasso, che i poveri ragazzi ebbero la stessa paura di quando lo videro col coltellaccio in mano, in atto di far loro la festa.
Ma Pollicino non ebbe tutta questa paura, e disse ai fratelli di scappare a gambe verso casa, mentre l’Orco dormiva come un ghiro; e di non stare in pena per lui.
Essi non se lo fecero dir due volte, e in pochi minuti arrivarono a casa.
Pollicino intanto si avvicinò all’Orco: gli levò adagio gli stivali, e se l’infilò per sé.
Questi stivali erano molto grandi e molto larghi, ma perché erano fatati, avevano la virtù d’ingrandirsi e di rimpicciolirsi, secondo la gamba di chi li calzava: per cui, gli tornavano precisi, come se fossero stati fatti per il suo piede.
Eglì andò di corsa alla casa dell’Orco, dove trovò la moglie che piangeva per le figlie uccise.
“Vostro marito”, le disse Pollicino, “si trova in un gran pericolo: è caduto fra le mani di una banda di assassini, che hanno giurato di ucciderlo, se non consegna loro tutto il suo oro e il suo argento. Mentre gli stavano col pugnale alla gola, esso mi ha visto, e mi ha pregato di venir qui per avvertirvi della sua trista condizione e per invitarvi a darmi tutto quello che egli possiede di prezioso, senza ritenervi nulla, perché caso diverso, lo uccideranno senz’ombra di misericordia. E siccome il tempo stringe, egli ha voluto che prendessi i suoi stivali di sette chilometri, come vedete, e non solo perché mi spicciassi, ma anche perché possiate accertarvi che non sono un imbroglione.”
La buona donna, tutta spaventata, gli diede ogni cosa che aveva; perché l’Orco, in fin dei conti, era un buon marito, quantunque fosse ghiotto di bambini.
Pollicino, col carico addosso di tutte le ricchezze dell’Orco, tornò a casa del padre, dove fu accolto con grandissima festa.
C’è per altro della gente che non crede che la cosa finisse così; e pretendono che Pollicino non commettesse mai questo furto a danno dell’Orco: e che solo non si facesse scrupolo di prendergli gli stivali di sette chilometri, perché egli se ne serviva unicamente per dare la caccia ai ragazzi.
Questi tali accertano di aver saputo la verità proprio sul posto, per essersi trovati a mangiare e bere nella stessa casa del taglialegna.
Raccontano, dunque, che quando Pollicino ebbe infilato gli stivali dell’Orco, se ne andò alla Corte, dove stavano tutti in gran pensiero per un’armata, che era in campagna alla distanza di duecento chilometri, e per l’esito di una battaglia data pochi giorni avanti.
Dimodoché Pollicino andò a trovare il Re e gli disse che se lo desiderava avrebbe potuto portargli le notizie dell’armata, prima del calar del sole. E il Re gli promise una grossa somma, se egli fosse stato da tanto.
La sera stessa Pollicino ritornò colle notizie dell’armata; e questa prima corsa avendolo messo in buona vista, guadagnava quel che voleva; perché il Re lo pagava profumatamente, valendosi di lui per portare i suoi ordini al campo. Dopo aver fatto per qualche tempo il mestiere del corriere, e avere ammassato grandi ricchezze, ritornò a casa di suo padre, dove non è possibile immaginarsi la festa che gli fecero nel rivederlo fra loro.
Egli mise la sua famiglia nell’agiatezza; e non dovettero più soffrir la fame.


Morale

Nessuno si lamenta di aver molti figliuoli, se questi sono belli, grossi e vistosi; ma se ce n’è uno solo debolino, questi è disprezzato, deriso, maltrattato; eppure qualche volta toccherà proprio al marmocchio di far la fortuna di tutta la famiglia.


lunedì 15 luglio 2013

Le Fate



Charles PerraultLe Fate

Traduzione di Carlo Collodi


C'era una volta una vedova che aveva due figliuole. La maggiore somigliava tutta alla mamma, di lineamenti e di carattere, e chi vedeva lei, vedeva sua madre, tale e quale. Tutte e due erano tanto antipatiche e così gonfie di superbia, che nessuno le voleva avvicinare. Viverci insieme poi, era impossibile addirittura. La più giovane invece, per la dolcezza dei modi e per la bontà del cuore, era tutta il ritratto del suo babbo... e tanto bella poi, tanto bella, che non si sarebbe trovata l'eguale. E naturalmente, poiché ogni simile ama il suo simile, quella madre andava pazza per la figliuola maggiore; e sentiva per quell'altra un'avversione, una ripugnanza spaventevole. La faceva mangiare in cucina, e tutte le fatiche e i servizi di casa toccavano a lei. Fra le altre cose, bisognava che quella povera ragazza andasse due volte al giorno ad attingere acqua a una fontana distante più d'un miglio e mezzo, e ne riportasse una brocca piena.

Un giorno, mentre stava appunto lì alla fonte, le apparve accanto una povera vecchia che la pregò in carità di darle da bere. "Ma volentieri, nonnina mia..." rispose la bella fanciulla "aspettate; vi sciacquo la brocca..." E subito dette alla mezzina una bella risciacquata, la riempì di acqua fresca, e gliela presentò sostenendola in alto con le sue proprie mani, affinché la vecchiarella bevesse con tutto il suo comodo. Quand'ebbe bevuto, disse la nonnina: "Tu sei tanto bella, quanto buona e quanto per benino, figliuola mia, che non posso fare a meno di lasciarti un dono". Quella era una Fata, che aveva preso la forma di una povera vecchia di campagna per vedere fin dove arrivava la bontà della giovinetta. E continuò: "Ti do per dono che ad ogni parola che pronunzierai ti esca di bocca o un fiore o una pietra preziosa".

La ragazza arrivò a casa con la brocca piena, qualche minuto più tardi; la mamma le fece un baccano del diavolo per quel piccolo ritardo. "Mamma, abbi pazienza, ti domando scusa...", disse la figliuola tutta umile, e intanto che parlava le uscirono di bocca due rose, due perle e due brillanti grossi. "Ma che roba è questa!...", esclamò la madre stupefatta, "sbaglio o tu sputi perle e brillanti!... O come mai, figlia mia?..." Era la prima volta in tutta la sua vita che la chiamava così, e in tono affettuoso. La fanciulla raccontò ingenuamente quel che le era accaduto alla fontana; e durante il racconto, figuratevi i rubini e i topazi che le caddero già dalla bocca!
"Oh, che fortuna...", disse la madre, "bisogna che ci mandi subito anche quest'altra. Senti, Cecchina, guarda che cosa esce dalla bocca della tua sorella quando parla. Ti piacerebbe avere anche per te lo stesso dono?... Basta che tu vada alla fonte; e se una vecchia ti chiede da bere, daglielo con buona maniera." "E non ci mancherebbe altro!...", rispose quella sbadata. "Andare alla fontana ora!" "Ti dico che tu ci vada... e subito", gridò la mamma.

Brontolò, brontolò; ma brontolando prese la strada portando con sé la più bella fiasca d'argento che fosse in casa. La superbia, capite, e l'infingardaggine!... Appena arrivata alla fonte, eccoti apparire una gran signora vestita magnificamente, che le chiede un sorso d'acqua. Era la medesima Fata apparsa poco prima a quell'altra sorella; ma aveva preso l'aspetto e il vestiario di una principessa, per vedere fino a quale punto giungeva la malcreanza di quella pettegola. "O sta' a vedere...", rispose la superba, "che son venuta qui per dar da bere a voi!... Sicuro!... per abbeverare vostra Signora, non per altro!... Guardate, se avete sete, la fonte eccola lì." "Avete poca educazione, ragazza...", rispose la Fata senza adirarsi punto, "e giacché siete così sgarbata, vi do per dono che ad ogni parola pronunziata da voi vi esca di bocca un rospo o una serpe."
Appena la mammina la vide tornare da lontano, le gridò a piena gola: "Dunque, Cecchina, com'è andata?". "Non mi seccate, mamma!...", replicò la monella; e sputò due vipere e due rospacci. "O Dio!... che vedo!...", esclamò la madre. "La colpa deve essere tutta di tua sorella, ma me la pagherà..." E si mosse per picchiarla. Quella povera figliuola fuggì via di rincorsa e andò a rifugiarsi nella foresta vicina. Il figliuolo del Re che ritornava da caccia la incontrò per un viottolo, e vedendola così bella, le domandò che cosa faceva in quel luogo sola sola, e perché piangeva tanto.

"La mamma...", disse lei, "m'ha mandato via di casa e mi voleva picchiare..." Il figliuolo del Re, che vide uscire da quella bocchina cinque o sei perle e altrettanti brillanti, la pregò di raccontare come mai era possibile una cosa tanto meravigliosa. E la ragazza raccontò per filo e per segno tutto quello che le era accaduto. Il Principe reale se ne innamorò subito e considerando che il dono della Fata valeva più di qualunque grossa dote che potesse avere un'altra donna, la condusse senz'altro al palazzo del Re suo padre e se la sposò.Quell'altra sorella frattanto si fece talmente odiare da tutti, che sua madre stessa la cacciò via di casa; e la disgraziata dopo aver corso invano cercando chi acconsentisse a riceverla andò a morire sul confine del bosco.


MORALE

Gli smeraldi, le perle, ed i diamanti abbaglian gli occhi col vivo splendore; ma le dolci parole e i dolci pianti hanno spesso più forza e più valore.


ALTRA MORALE

La cortesia che le bell'alme accende, costa talora acerbi affanni e pene; ma presto o tardi la virtù risplende, e quando men ci pensa il premio ottiene.

giovedì 11 luglio 2013

I miei video su YouTube



30 video caricati nel mio canale:

www.youtube.com/user/stellademarisvideo


La vecchia o la giovane?

  
Buongiorno, sono la dama vecchia



Un caro saluto dalla dama giovane


 Quale dama verrà rapita per prima?

La vecchia o la giovane?




Stella Demaris, "Quattro Passi nel Settecento", e-book e libro cartaceo

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martedì 9 luglio 2013

BITE. Forze Invisibili



Il nuovo libro di Alex Coman!


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